10 anni

Sono passati in sordina 10 anni da quando ho aperto questo mio spazio virtuale.
Al tempo l’ho fatto proprio perché non avevo un posto mio, solo mio.
Abitavo a Roma, mi sentivo persa.

Potessi prendere quella ragazza appena 24enne tra le braccia la stringerei forte e le direi che è brutto e fa male, ed è giusto così.
Le direi che il dolore al pari della gioia è un sentimento sano che va accolto amato e lasciato quando è il momento.
Le farei una carezza e le direi che il suo valore non dipende da quello che gli altri pensano di lei sia in bene che in male.
La stringerei al petto, vicino al cuore, come adesso stringo mia figlia e le direi, come dico anche a Livia, che la amo immensamente.

In 10 anni sono cambiate alcune cose e altre sono rimaste le stesse e va bene così.

[Consigli di lettura] Oltre il confine – Cormac McCarthy

Da mangialibri.com

L’attesissimo secondo capitolo della Border Trilogy, dopo il successo mondiale di Cavalli selvaggi nel 1992, è ancora un romanzo di formazione, e ancora una volta vede dei ragazzi (prima solo Billy e la sua lupa tanto inseguita, poi Billy e Boyd in cerca di cavalli rubati e vendetta,  infine ancora Billy da solo alla ricerca del fratello) passare il confine tra Stati Uniti e Messico. Un attraversamento che è ovviamente una metafora (ben resa dal titolo originale The Crossing e tutto sommato per una volta anche da quello italiano Oltre il confine) e sancisce un passaggio all’età adulta che Cormac McCarthy vede e racconta come inesorabilmente doloroso. Regnano un cupo pessimismo, una malinconia struggente che fanno da controcanto ad atmosfere à la Jack London nella prima parte e a un plot più tipicamente western (anche se il romanzo è ambientato negli anni a cavallo della Seconda Guerra Mondiale) con spruzzate di Hemingway – data l’ambientazione messicana – nella seconda e terza parte. Ma a dominare la scena non sono le storie o i personaggi: è lo stile di Cormac McCarthy, quella che Anthony Quinn sull’Independent ebbe a definire con singolare efficacia la sua “archaic grandeur”. Qui il gioco dell’autore di Providence se possibile si fa ancora più scoperto, e in alcuni momenti il lettore riesce come a vedere in trasparenza gli ingranaggi che muovono la macchina narrativa: il sintomo di un approccio meno spontaneo, più cerebrale, più di maniera? Forse. O forse no. La scrittura di McCarthy, si sa, è basata sulla laconicità dei dialoghi, privi di virgolette e quasi privi di notazioni quali “disse”, “aggiunse”, “rispose” etc.:  i personaggi sono estremamente parchi di parole, e nei silenzi e nelle pause che riesce a percepire quasi fisicamente il lettore è istintivamente portato a immaginare un mondo intero di non detto, di sottintesi, di emozioni. La domanda è: questo mondo nascosto tra le righe esiste davvero o stiamo cadendo in una trappola come quelle che Billy Parham e suo padre piazzano nei boschi del New Mexico? Forse il segreto di questo grande scrittore è proprio questo: lavorare talmente in sottrazione, distillare tanto severamente le parole da regalarci il minimo indispensabile da leggere. Per costringerci a leggere dentro di noi più che sulle pagine dei suoi libri.

Il doloroso passaggio dall’adolescenza all’età adulta di Billy Parham che ci fa rivivere con forza e passione i nostri sogni ed incubi. È uno dei più bei libri che io abbia letto.

Ho trent’anni.

L’ultima settimana è stata tutta un’alternarsi di allegria e afflizione, gaiezza e mestizia. Poi finalmente ieri ho compiuto 30 (trenta, T.R.E.N.T.A.) anni.
Ho invitato qualche amico per un brindisi nel nostro locale preferito, mi sono guardata bene dal programmare chissaché, ho pensato solo alla torta, un ostinato esercizio volto a ridestare il fanciullino sopito: sfilatino con la crema di nocciole.
Mentre facevo mente locale su quanti pezzetti si potessero ricavare da uno sfilatino intero, equazione comprensiva di variabili e incognite, ça va sans dire, mi ha colto un momento di morigeratezza al quale non ho potuto che dare udienza.

Trent’anni. TRENTA. Scusate la ripetizione.
Tra le varie cose di cui mi recrimino c’è quella di sentirmi perennemente in affanno e restare puntualmente con un pugno di mosche in mano. La vita nel regime della libera professione è così, dovrebbero scriverlo nell’atto di apertura della p.iva. Oltre a rendere più o meno noto del 33mila% di tasse da pagare, dovrebbero aggiungere come nei medicinali: può provocare bipolarismo, gravi oscillazioni emotive e disturbi umorali.
Era tutto pronto per un ciclo completo di “biasimo autogeno”, poi mi è tornato alla mente un articolo letto per caso mesi fa e mi sono sentita colpevole di superficialità.
Ho trent’anni e sono fortunata. E per chi pensa che la fortuna non esista, sappiate che prima dell’esistenza di qualsiasi essere umano su questo mondo maltrattato, la fortuna è il parametro che gioca il ruolo principale per il nostro futuro, vorrei aggiungere che ce lo delinea in tutto e per tutto ma cercherò di essere positiva – è sempre il mio compleanno. Nessuno di noi ha modo di decidere la cosa che più di tutte influenza la nostra vita: il luogo dove nasciamo. Ed è quando tiri una linea e cerchi di sistemare in un ordine accurato tutti i risultati raggiunti che capisci che non è quello che hai, ma quello che manca a fare la differenza.

Ho trent’anni e non ho mai vissuto una guerra sulla mia pelle.
Ho trent’anni e non ho mai subìto uno stupro.
Ho trent’anni e non c’è qualcuno che dispone del mio corpo al posto mio.
Ho trent’anni e non ho dovuto abbandonare i miei cari in un paese lontano.
Ho trent’anni e non sono mai stata venduta come schiava.
Ho trent’anni e non sono mai stata guardata o apostrofata con odio.
Ho trent’anni e non sono mai stata torturata.
Ho trent’anni e non sono mai stata imprigionata ingiustamente contro la mia volontà.
Ho trent’anni e non ho dovuto affrontare un viaggio disumano per sfuggire da condizioni di vita spiacevoli.
Ho trent’anni e non ho dovuto partorire in condizioni precarie.
Ho trent’anni e non sono morta.

È lapalissiano dovercelo ricordare oggi, nel 2018, ma siamo stati semplicemente favoriti dalla sorte ad essere nati nella parte fortunata del mondo.
L’articolo che mi è tornato in mente titolava “16 bimbi non hanno mai raggiunto la Diciotti. [..] durante la detenzione sotterranea in Libia sono nati 16 bambini, poi morti” non c’è modo per edulcorare il significato delle parole, tanto meno delle azioni.
Di fronte a questo, chi se ne importa di quante fette di pane e crema alla nocciola si ricavano da uno sfilatino intero.

Il regalo che mi sono fatta quest’anno è un piccolo aiuto ad Emergency.

[Consigli di lettura] Ruggine americana – Philipp Meyer

Sto leggendo Ruggine americana di Philipp Meyer.

A parer mio si tratta di un libro che rasenta la perfezione, ma vorrei poter dire di più per questo lascio una delle citazioni più belle del libro e la recensione di Mariarosaria di Il Salotto irriverente:

C’era qualcosa di tipicamente americano nell’incolpare se stessi della propria sfortuna, quel non credere che la propria vita risentisse dei fenomeni sociali, la tendenza ad attribuire i grandi problemi al comportamento individuale. L’altra faccia del sogno americano.

>> Un paese di provincia e le fabbriche chiuse, fuga e rassegnazione, chi se ne va e chi resta, traditore o tradito, poche prospettive per evitare un destino che sembra assegnato dalla nascita ad ognuno … non sto descrivendo la mia provincia calabrese ma la provincia americana di Philipp Meyer che con il suo romanzo: Ruggine Americana ci presenta l’ennesimo fallimento del sogno americano…

Perché prima o poi tutt* dovrebbero leggere (tutti i romanzi di) Jane Austen

Incerto dire quando, per ognuno è diverso, ma ad un certo punto della vita ci ritroviamo deluse; stanche; disilluse; con nessunissima idea di come si usa il punto e virgola – non solo letteralmente.

Quando le elucubrazioni sono all’ordine del giorno, quando le considerazioni più che meticolose sulla vita ci sfuggono di mano, quando voli pindarici diventano lo standard di comunicazione è il momento giusto per respirare profondamente e aprire Ragione e Sentimento, opera prima – se non consideriamo i racconti e gli altri lavori – di Jane Austen.

ndr: per i fortunati che ignorano cotanta fantasticheria, Ragione e Sentimento è il romanzo dal quale consiglio di iniziare a conoscere la vecchia Jane.

Perché proprio Ragione e Sentimento? Perché se ci ritroviamo deluse; stanche; disilluse; ecc.; ecc.; una delle possibili motivazioni va ricercata nella mancanza di armonia con l’energia che ci circonda. Quel fottuto equilibrio cosmico che ci fa alzare la mattina con i capelli decenti e di buon umore.

Le protagoniste di Ragione e Sentimento sono due sorelle, Elinor e Marianne, che rappresentano perfettamente due aspetti di una stessa medaglia. Da un lato Elinor, simbolo imperituro della ragione, non perde mai di vista il raziocinio, gentile e sempre pronta a dispensare buoni consigli anche a suo discapito. Dall’altro Marianne, impetuosa, donna d’istinto, civettuola, innamorata dell’idea dell’amore più che dell’amore stesso, perché ancora ne ignora i segreti, un anima ardente di passione. Alzi la mano chi non si è mai trovata a contemplare il lato dualistico del proprio carattere evidenziato da situazioni o persone che ne mettono in luce l’uno o l’altro aspetto.

Passiamo una vita a sentirci delle lunatiche senza speranza, poi leggiamo Ragione e Sentimento e capiamo di essere meravigliose.

Ci rendiamo conto che è meraviglioso bruciare di passione, è meraviglioso essere impetuose e senza freni, è meraviglioso perfino soffrire per amore, è meraviglioso essere Marianne qualche volta.

La bellezza di Ragione e Sentimento, però, è che ti fa capire che è meraviglioso anche essere Elinor, che anzi è proprio l’Elinor che c’è in noi che alla fine ci salva le rotonde e abbondanti natiche.

E allora, alla fine del libro ti ritrovi felice e con una incredibile voglia di leggere Orgoglio e pregiudizio.

Caso o coincidenza?

Il nostro meraviglioso, incredibile, magnifico, mediocre e terribile mondo può essere diviso in due categorie di persone nette e distinte: chi crede al caso e chi alle coincidenze.

Vi risparmierò le menate alla serendipity, io sono il genere di persona che crede nelle coincidenze. Forse perché si tratta di un’ipotesi meno amara dell’indefinibile “caso” (ndr caso –> caos) ma sono convinta che siamo tutti connessi con l’energia che abita il nostro pianeta.

Si chiama sincronicità, termine coniato da Carl Gustav Jung per indicare eventi collegati tra loro da un principio a-casuale, non casuale. Avviene quando notiamo delle connessioni tra cose che ci succedono, ad esempio a me capita spesso di leggere in un libro delle frasi che mi rimangono in mente e ritrovare il concetto o le stesse parole parlando con qualcuno e viceversa.

Il vecchio Carl era un dritto e riteneva che alcuni eventi fossero strettamente connessi gli uni agli altri senza apparenti cause scatenanti: le benedette coincidenze!

E ora arriviamo alla mia bécera interpretazione delle coincidenze: mi succedono con gli oggetti, o più precisamente con gli orecchini. Mi spiego meglio.

Ho notato che nell’ultimo anno spesso – sempre – mentre sto facendo una cosa che lì per lì mi diverte assai, ma poco lungimirante, perdo/mi si rompe/mi si toglie un orecchino, solo uno.

Oltre ad avere un sacco di orecchini spaiati che i calzini in confronto zero, mi son dovuta necessariamente fermare a riflettere. Non si possono decidere le sorti di una relazione per un orecchino, siamo d’accordo, ma come suona bene “non possiamo vederci più, ho perso un orecchino”. Quanto meno non è banale come “non sei tu, sono io”.

 

 

Le diffide di Irene

Una delle cose più belle che si possono fare dopo i venticinque anni, diciamo ventiequalcosa, è ritrovarsi a cena tra amiche.

Un classicone vede le donne in eterna competizione tra loro in un susseguirsi di colpi bassi e frecciatine nell’aulico gioco del “ce l’ho più lungo” versione femminile. E invece no. Dai ventiequalcosa in poi le serate tra donne rappresentano uno dei migliori modi per tornare a casa spensierate e con il sorriso.

Questo perché, dopo anni di paturnie e varie ed eventuali, siamo finalmente serene, ci circondiamo di persone che amiamo e con cui possiamo essere noi stesse, con cui poter parlare di tutto, ma proprio di tutto senza peli sulla lingua. In ogni serata tra donne che si rispetti esiste una sola regola:

  • Non parlare mai del Fight Club emh… Quello che succede a Las Vegas resta a Las Vegas emh va beh, ci siamo capite.

Oggi però faremo un’eccezione, perché quando si raggiungono livelli di conoscenza cotanto elevati non si può fare a meno di divulgare il verbo. In questo caso il verbo di Irene.

Nel corso di una serata tra cinque donne – single e non in percentuale variabile – si passano inevitabilmente in rassegna le novità in ambito “uomo” – vi invito caldamente a consultare la pagina wikipedia “Uomo” per approfondimenti e ottimismo – e qui sopraggiunge l’amica che candidamente lancia perle/diffide lapidarie alla mercé dell’umanità, tipo:

  1. Diffida due volte degli uomini che si rasano i capelli a pelle. La prima perché tranne Mastrolindo, Casper e The Rock nessun uomo sceglie veramente di assomigliare ad un cono gelato con una pallina sola, quindi sta mentendo. La seconda, ma non meno importante, è che se lo sceglie veramente, probabilmente nasconde qualcosa, tipo un ego sproporzionato.
  2. Diffida dei ragazzi troppo alti. Che tu sia un onestissimo 1.50 o un audace 1.70 per loro non farà alcuna differenza, la tua statura sarà sempre paragonata a una caramella mou che chissà perché ha deciso di mettersi sopra un barattolo, le tue capacità di svolgere una qualsiasi attività giornaliera considerate praticamente inesistenti.
  3. Diffida dei ragazzi con i capelli più lunghi dei tuoi. Cosa nasconde la folta chioma di un uomo: uno spirito ribelle e inaffidabile o una calvizie incipiente? In ogni caso oltre ad intasare per sempre lo scarico della doccia costringendoti al trasloco, prima o poi finirà per usare i tuoi elastici. Tutti i tuoi elastici.
    Ndr: questa diffida non vale per Jason Momoa.

The Collection – Barry White (1988)

The Collection di Barry White, anno 1988, è la prima musicassetta che ho ascoltato a loop della mia vita.  A loop perché era quella che stava dentro la Ford Sierra bianco panna, 5 porte, di mio padre – 5 porte non è un dettaglio da trascurare, poi capirete perché. Penso una delle poche auto della storia uscita dal concessionario e tornata praticamente identica quando l’ha venduta almeno 14 anni più tardi.

Aveva la fissa delle auto mio padre, non so se esiste un nome per chi è un grande amante delle macchine, quella è una delle qualità che non ho ereditato.

Dentro la Ford Sierra bianco panna di mio padre non si poteva: mangiare, giocare, chiacchierare, muoversi, fare scherzi alla sorellina piccola, toccare il finestrino, alitare sul finestrino, disegnare sul fiestrino, mangiare caramelle, mangiare chewingum – dopo quella volta in cui per buttarne uno ho aperto lo sportello in corsa – mettersi in ginocchio sul sedile al contrario, erano vietate anche le varie ed eventuali, tipo la sosta per fare pipì finché non trovava una piazzola che soddisfacesse i suoi gusti, anche gli autogrill non erano adatti certe volte.

Quando ha venduto la Ford Sierra si è comprato una Ford Focus station wagon, grigio metallizzato – era un tipo abitudinario.

La Ford Focus station wagon di mio padre era sempre perfetta, profumava di nuovo anche se aveva 12 anni. La tappezzeria era nuova e nessun dettaglio tradiva l’età dell’auto, la curava in ogni piccolo particolare come la luce della plafoniera – non so se si chiama così la luce che si accende quando si apre lo sportello della macchina, facciamo di sì. Beh, la luce della plafoniera è stata nell’ordine blu nightclub e rosso inferno.

Al posto dell’accendisigari c’era sempre il caricabatterie del navigatore, navigatore che era h24 attaccato al parabrezza, spento. Nello stereo c’era l’immancabile The Collection di Barry White riversato su CD.

Non me la faceva mai guidare la sua Ford Focus station wagon, diceva che non avrei saputo regolarmi con le dimensioni, neanche in caso di ampio parcheggio.

Una volta però l’ho guidata. L’ho riportata a casa.

Lui non se lo aspettava.

La Forf Focus station wagon grigio metallizzato di mio padre quel giorno era  in disordine, c’erano macchie di cenere sui sedili.

Appena mi sono seduta alla guida ho capito che lui la puliva con cura ogni volta che ci aspettava, me e mia sorella. Quando sapeva di vederci.

In quel momento mi sono resa conto che c’erano aspetti di mio padre di cui ero completamente all’oscuro. Mi sono sentita persa.

L’esate di cinque anni fa, quella in cui mio padre ci ha lasciate avevo cominciato a scrivere una storia, parlava di lui.

L’ho lasciata in sospeso. La mia auto non è ancora in ordine.

Oggi avrebbe compiuto 56 anni. Manca.

 

È tutta una questione di numeri

Numeri: quell’inevitabile consapevolezza che coglie la donna alla soglia dei trent’anni. Se n’è stata in silenzio e in attesa per decenni, in un angolino della memoria accatastando ricordi ed esperienze, con l’unico scopo di uscirsene allo scoperto un giorno insospettabile – tipo il giorno dei saldi da Feltrinelli. Ed ecco che srotola la luuunga pergamena con la lista di tutto quello che avremmo voluto dimenticare, che in effetti pensavamo fosse dimenticato, e invece: no-assolutamente-no.

I ricordi tornano su tutti insieme, come nelle “indigestioni scontate”, per esempio la colazione alle 3 di notte che “Sii mi ci sta il paninozzo, ho una famee!”, ma il giorno dopo sei più convinta che mai che la vita in futuro potrà riservarti al massimo il divano e una tisana al finocchio.

I miei ritorni al passato cominciano inevitabilmente da Luigi, con cui ho pomiciato sull’autobus della gita delle medie (seconda pomiciata della mia vita, prima indiscussa delusione). Uomo la cui posizione cambia costantemente nella mia memoria, passando – e non parlo cronologicamente – dall’essere un tenero ragazzino con un buffo accenno di peluria sopra il labbro superiore, al demonio capostipite di tutti i ragazzi interrotti conosciuti dopo di lui – dipende dal mood della giornata.

In ogni caso, l’idea di scrivere questo post mi è venuta qualche tempo fa vedendo un filmetto easy easy che si chiama What’s your number?, con una super informissima Anna Faris e Captain America Chris Evans – che pure in borghese fa l’effetto giusto.

Nel film, Ally decide di punto in bianco di essere stata a letto con il numero massimo di uomini possibili, allora l’amore della sua vita deve essere per forza un suo ex, che non conta come un +1. Scrive la lista di nomi e chiede aiuto al vicino. Ça va sans dire, Captain America della porta accanto è quello che più si avvicina a un (p/b)enefattore, e l’aiuterà a rintracciare ogni nome della lista.

Dopo un leggero fastidio per l’obsoleto messaggio comunicato alle donne da un film del 2011 – e vi risparmio il pippone correlato – mi sono trovata a riflettere.

No, non seguiranno informazioni personali quali numeri, pesi e misure.

La riflessione è: quand’è che diventiamo severi giudici di noi stesse al punto che ci limitiamo nelle emozioni, nelle relazioni e nella vita? E siamo d’accordo, questo non significa che ci si debba forzare a fare l’esatto opposto di quello che vorremmo, semplicemente, perché non ci accettiamo? Perchè non accettiamo la nostra natura? Perché non accettiamo quello che vogliamo fare? Perché non lo accogliamo come una qualsiasi altra parte del nostro corpo, che so un piede o un braccio.

L’immagine che mi viene in mente ora è quella di un fitto cespuglio di rovi: per mangiarne i frutti, bisogna sporgersi, addentrarvi e uscirne con un po’ di ferite, con l’epidermide danneggiata quel tanto che basta da lasciare il segno, per non dimenticare di quanto fossero buoni i frutti.